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pensieri che se ci avessi pensato due volte me li sarei tenuti per me

I giovani non esistono

L’altro giorno due miei conoscenti, due persone ormai verso i trent’anni (28 e 29 anni), due persone che vengono regolarmente alle proteste (il 28enne a quelle più numerose – ha un po’ più paura di beccarsi una multa –, il 29enne a tutte, anche alle manifestazioni davanti ai commissariati), discutevano dei giovanid’oggi™.

Il 28enne diceva che i giovani sono abituati alla comodità, il 29enne ha risposto: “non capisco perché c’è in giro un’opinione tanto negativa sui giovani, la sento di continuo. Quando parlo con loro sono incredibili e si preoccupano che non avranno abbastanza acqua per la vecchiaia.”

Quello di “non avere abbastanza acqua da vecchi” è proprio una delle preoccupazioni scritte sui nastri lasciati davanti al Parlamento alla recente protesta di Extinction Rebellion Polska.

Il dibattito (se così si può chiamare) sui “giovani”, però, è secondo me un falso problema, al peggio una vera e propria distrazione. La mia convinzione è infatti che non esista una categoria unica, riconoscibile, con comportamenti coerenti che possiamo chiamare “giovani”. Vorrei anche buttare qui due righe sulla mia paura (sicuramente dovuta al fatto che divento sempre più nonno) che questa falsa categoria possa danneggiarci, addirittura scoraggiare l’attivista che è in tutt* noi (fa ridere detta così? Ma ognun* di noi poveracc* ha diritto – e il dovere morale – di incazzarsi, di attivarsi).

Lo so, sono in ritardo: avrei dovuto scrivere queste righe cinque anni fa, o forse dieci, o forse addirittura quindici. Non ho ancora compiuto trent’anni, ma non credo nessuno si riferisca a me quando parla dei giovani. Chiaramente si parla dei cosiddetti “giovanissimi” (i liceali) e degli studenti universitari. Ma, anche restringendo il gruppo, a chi  ci stiamo veramente riferendo?

Se parliamo di gente tra i quattordici e i diciotto anni (ci sono molti minorenni alle proteste – e mi scuso per non menzionare tredicenni, dodicenni e via scendendo), una persona che va al liceo ha già inclinazioni e spesso possibilità economiche molto diverse da una persona che va al tecnico. Parlando di universitari, lo stesso si può dire tra chi fa l’università e chi il politecnico. Vogliamo davvero mettere questi gruppi già frammentari insieme solo per ragioni anagrafiche? Facciamolo:

vedremo che non c’è niente di più diverso da uno studente liceale e uno studente universitario. In Italia, dove spesso gli universitari vivono ancora in famiglia, forse la differenza è più attenuata, ma in Polonia sono proprio due categorie separate:

Il liceale va a “szkoła”, invece l’universitario “studiuje”. Logisticamente, il liceale vive in famiglia, l’universitario vive con i coinquilini, in uno studentato o da solo (se è ricco) e quasi sempre in città. Economicamente il liceale è più dipendente dai genitori, perché spesso l’universitario lavora e studia. Il liceale è quasi sempre minorenne e quindi ha evidentemente meno libertà (e non ha diritto di voto).

Gli universitari poi possono essere di triennale o di magistrale. Oppure dottorandi, già più verso i trenta.

In tutto questo non abbiamo nemmeno preso in considerazione i giovani che non fanno l’università e magari fanno i muratori, lavorano al supermercato o sono disoccupati. Oppure quelli (spesso, ma non sempre, con una laurea triennale) che lavorano in una qualche multinazionale (tra questi, quelli che lo fanno per i soldi e quelli che ci credono davvero).

Cosa voglio dire? Che quando parliamo di giovani parliamo di ragazz* di età compresa tra i 14 e i 29 anni. Almeno. Perché poi è difficile dire che a 33 anni gesù cristo, per esempio, o lester bangs, non fossero più giovani. Ma cosa hanno in comune la vita quotidiana e le condizioni socioeconomiche di un dottorando trentenne o un impiegato di 27 anni con quelle di un ragazzino di 16 anni? Non molto.

Eppure alle proteste ci sono sia 29enni che 16enni. Così come quarantenni e sessantenni.
Molti fanno i complimenti ai più piccoli che si stanno preoccupando del futuro e del clima. Altri li criticano, dicendo che è solo una moda, spesso “apolitica” e quindi “disimpegnata” (è anche il motivo per cui è più facile dire “mi piacciono gli alberelli” che “basta regalare soldi alle aziende automobilistiche”).

Tutte e due mi sembrano osservazioni superficiali: c’è un motivo per cui i più piccoli si preoccupano maggiormente del clima ed è lo stesso motivo per cui il tema è più “modaiolo”: il fatidico 2050, anno per cui i più ottimisti (altri parlano del 2030) prevedono guerre per l’acqua, inondazioni di venezie eccetera eccetera, è sempre più vicino. Quindi è ovvio che chi va al liceo nel 2020 abbia più paura e più interesse a preoccuparsi di ciò che avverrà nel 2050 rispetto a uno che è andato al liceo nel 2000. Chi dice che questi ragazzi lottano per il futuro, si sbaglia: lottano per il loro/nostro presente.

Quindi non mi sembra abbia senso santificare queste persone che lottano per un problema molto tangibile, per una ragione piuttosto pratica: non morire di sete a quarant’anni. Allo stesso tempo, non ha senso parlare di moda. La paura climatica è di moda perché, appunto, il problema è attuale. È come dire che c’è una moda del coronavirus. Il mare lo stanno uccidendo ora.

Dire che difendere il clima è poi una scelta facile e disimpegnata è un’altra battuta superficiale. È vero che si tratta di una scelta “facile”: è la risposta alla domanda: vuoi respirare merda e crepare o no? Ma questa scelta ovvia ha implicazioni politiche meno “popolari”: cioè anticapitalistiche e anticonsumistiche. E in questo i giovani (sono ancora in tempo per dire “noi giovani”?), almeno quelli che vedo protestare, sono coerenti: non fanno la spesa in certi supermercati, sono quasi tutt* vegan* o vegetarian* e persino per attaccare i propri manifesti usano una colla fatta con la fecola di patate.

Un venticinquenne carrierista in una multinazionale non ha niente a che fare con un dottorando in filosofia della stessa età o con un disoccupato della stessa età o con una cassiera della stessa età o con una persona che vive in uno squat. Babcia Kasia ha più in comune con i sedicenni che vanno alle proteste rispetto a Trzaskowski, il relativamente giovane sindaco di Varsavia (è del ’72, ha un aspetto giovanile e come politico in Italia sarebbe tranquillamente considerato “giovane”).

In più, la finta categoria “giovani” è distruttiva sia per gli under 30 che per gli over.

Per gli under 30, sentirsi dire che non si fa un cazzo, che si è pigri, che si è dei buoni a nulla, che non si è abbastanza adulti o seri, può portare a demoralizzarsi o, forse peggio, a “calmarsi” (cioè, mettiamo: passare dal fare attivismo a votare per i verdi – bleah, praticamente dei capitalisti greenwashed – ogni quattro anni; diventare, ribleah, “realisti”). Ma anche sentirsi lodare in quanto “giovani”, lo ricordo bene, è una forma di discriminazione. Avevo quindici anni e andavo all’occupazione e qualche giornalista si riferiva a noi come ‘giovani’. Mi sembrava uno ‘sminuire’ il problema. Quel ‘giovani’ voleva dire ‘diversi’, ‘speciali’ – come dire: separati dal resto della società. Eppure i nostri motivi per essere arrabbiati (l’indebolimento della scuola pubblica) erano molto seri e non capivo perché, se qualcuno ci avesse intervistato, avrebbe dovuto sottolineare la nostra età. Le nostre preoccupazioni erano valide e sarebbero state valide anche se fossimo stat* più piccol* o se fosse stato un insegnante vicino alla pensione a dire le stesse cose.

Chi scavalca i 30, invece, finisce per sentirsi “fuori dal gruppo” (ho davvero sentito una persona di 29 anni definire un’altra persona più giovane “painfully younger”. Ma come si può essere “painfully younger” di un* ventinovenne? Abbiamo davvero così interiorizzato il consumismo da sentirci fino a questo punto da “usare finché è nuovo e buttare via”?). Fuori dal gruppo e quindi, in fondo, “esentat*” da tutte le cose che in società sono spesso associate alla gioventù: prima di tutto il coraggio, la sfrontatezza, il difendere le proprie posizioni e convinzioni per quanto possano suonare estreme e irrealizzabili agli altri. Purtroppo per i più grandi, è solo osando pensare l’irrealizzabile che si può cominciare a realizzarlo. Insomma, beatificare i giovani è in fondo un modo, per molt*, di giustificare la propria inerzia: dire “i giovani di oggi sono meglio di noi” è suggerire: ci penseranno loro a salvare il mondo, io posso continuare ad usare l’automobile e posso smettere di arrabbiarmi, di scendere in piazza e protestare.

Esaltare la gioventù è anche un modo per “allontanarla”: loro, i giovani, insomma, gli altri fanno attivismo, sono così bravi, sono speciali. Ma l’attivismo lo puoi fare anche a quarantanni. Molt* giovan* stanno a casa e giocano alla playstation. Non è quindi la gioventù ad avere un valore in sé (chi ha votato Renzi perché era/è giovane dovrebbe tatuarselo). E non è avere più di trent’anni che ti impedisce di attaccare manifesti. Lavorando contro l’idea che la nuova generazione sia in qualche modo “speciale” (in positivo o in negativo), molte scuse a favore dello starsene in casa e subire decisioni politiche (invece di prenderle) cominciano a cadere.

Non è casuale, non si tratta di una qualità intrinseca e magica, che molt* giovani siano più femminist*, queer e ambientalist*: è stato più facile per loro entrare in contatto con queste idee (sia per l’esistenza di Internet, sia per l’aumento esponenziale di studi in questi campi). Allo stesso tempo, una volta capito che queste sono buone idee, l’età che si ha è irrilevante e proprio il fatto che i giovani non hanno niente di intrinsecamente diverso dai loro genitori dovrebbe portare a questa consapevolezza: tutt* possono attaccare manifesti, disimparare il maschilismo, scendere in piazza. I “giovani” – se esiste un gruppo di persone più o meno omogeneo che si possa chiamare così – non hanno miracolosamente accesso a una sensibilità preclusa agli over 40 (oi, ho alzato l’età, e mo come si fa?). Questo è banalmente dimostrato, se devo fare un esempio concreto, dal caso di Babcia Kasia e delle Polskie Babcie.

Lo so, diciassettenne, forse avresti preferito se ti avessi leccato il culo e detto quanto sei speciale, e quanto sia sorprendente per me che ti sbattessi per il tuo pianeta e per il tuo preferire aria pulita al diossido di carbonio. Ma anche il culto della gioventù è una cagata pazzesca. Come quello della vecchiaia, del resto (quando ci dicevano che i politici vecchi avevano più esperienza – sì, nel latrocinio). Tutti i culti sono cagate.

Per ultimo (ma forse ti vengono in mente altri punti – che arroganza scrivere “per ultimo”), parlare di “giovani” mette in piedi l’idea che ci sia un conflitto tra generazioni. Quante volte ho sentito quello stereotipo (anche all’università, un posto che dovrebbe rifiutare le banalità, quando si parlava di beatnik e di musica rock) secondo il quale i giovani sarebbero, diciamo, “ribelli” per natura. Avrebbe già un pelino di senso in più dire che i figli sono ribelli per necessità, dato che il potere dei genitori è, alla lunga, dittatoriale e insopportabile e deve essere rifiutato (questo anche nel caso tuo padre abbia 32 anni e tu 13 e siate entrambi, dunque, “giovani”).

Il conflitto vero, però, non è tra adolescenti e cinquantenni, ma tra ricchi e poveri, tra potenti e inermi. Non, quindi, tra un giovane che fa tre lavori per riuscire a pagare l’affitto, le/i quarantenni sfrattat* di casa e le pensionate che, per le strade di Varsavia, chiedono l’elemosina per arrivare alla fine del mese. Non esiste, qualcuno lo gridi!, un’età per essere ribelli, ma solo un momento: ora.

Quindi basta con queste cagate ageiste (gerontofile o gerontofobe che siano): i “giovani” (qui la sparo grossa) non esistono. Di ignavi, invece, ce ne sono, come direbbe qualche ggiovine trentenne, un botto – o, come direbbe quel vegliardo di Eliot, so many.