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Sentire cosa accade in Valsusa. A quei 4 gatti che mi leggono

Ieri, a mezzogiorno in punto, è suonato un allarme e io, che abito al millamillesimo piano, ho pensato subito: e dove vado io, se succede qualcosa?
Stavo cucinando e il suono dell’allarme copriva il borbottio dell’acqua. Veniva da fuori; mi sono preso il rischio di aprire la finestra (dove vivo c’è il caso che non riesca più a richiuderla – per fortuna è primavera) e ho scrutato gli edifici vicini, le strade e l’orizzonte in cerca di fumo. Niente.
Poi è rientrato il mio coinquilino e mi ha messo gentilmente di fronte alla mia ignoranza: era l’anniversario dell’inizio dell’insurrezione del ghetto di Varsavia. Si tratta, mi ha detto (lui o wikipedia), della rivolta più importante organizzata dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Dopo aver sentito (e/o letto) questa storia, mi è venuto un brivido a ripensare alla mia paura che ci fosse un incendio – e non solo per la mia notevole ignoranza. No, il punto è che proprio attraverso gli incendi dolosi degli edifici del ghetto, i nazisti riuscirono a piegare la resistenza degli ebrei. Marek Edelman, uno dei pochi sopravvissuti di questa rivolta, avrebbe affermato “siamo stati sconfitti dalle fiamme, non dai tedeschi.”

“Hai presente la poesia di Miłosz Campo dei fiori?” ha chiesto il mio coinquilino dopo avermi spiegato quello che avete appena letto “Ecco, parla dell’insurrezione del ghetto.”

Ho presente sì “Campo dei fiori”. La prima volta che ho avuto a che fare con le parole che formano quella poesia è stato in una versione alla chitarra di Kołakowski, abbastanza intensa da rendere superflua la comprensione di quello che diceva il cantante (e infatti non lo capivo).

Poi ho cercato il testo su internet. Lentamente, ascolto dopo ascolto, le parole che non capivo diventavano sempre di meno. La poesia trovava un parallelismo tra il rogo di Giordano Bruno e l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Metteva a confronto l’indifferenza “ai roghi dei martiri” dei varsaviani e dei romani. Dopo aver proposto – nella poesia stessa – possibili chiavi di lettura (il poeta suppone che qualcuno parlerà di indifferenza, qualcuno dell’oblio di cose umane), ci dice cosa colpisce l’immaginazione di Miłosz:

“Eppure io allora pensavo/Alla solitudine di chi muore./Al fatto che quando Giordano/Salì sul patibolo/Non trovò nella lingua umana/Neppure un’espressione,/Per dire addio all’umanità,/L’umanità che restava.”

Questa, in quesi versi e queste parole, è stata “l’idea” che ho portato via dalla poesia di Miłosz. Mi sembrava intelligente e spaventoso. Il contesto storico, con un’idea del genere, cadeva in secondo piano. Essendo io un lettore disinformato e una persona pigra, versi come “le salve dal muro del ghetto” o “il vento dalle case in fiamme” non suscitavano in me l’interesse di scoprire cosa fosse accaduto a Varsavia. Intuivo che si trattasse di qualcosa di terribile, e bastava questo a rendere comprensibile la poesia.

C’era anche un altro motivo per cui la poesia mi piaceva e anche questo secondo aspetto non aveva niente a che fare con l’occasione che aveva ispirato il poeta: come sempre Miłosz ha un modo di presentare vivido – oggi diremmo (ma forse anche allora) fotografico – e con “ceste di olive e limoni”, “spruzzi di vino per terra”, “frammenti di fiori” e “rosati frutti di mare” riesce nello spazio della prima strofa a prendere un evento da libri di storia e renderlo concreto, direi quasi palpabile. Penso soprattutto a quel “rosa” dei frutti di mare, alla tenerezza della carne del mollusco suggerita attraverso l’uso del colore. Il contrasto tra il ‘realismo’ delle descrizioni e l’affermazione che ‘la loro lingua [dei morti] ci è estranea/come lingua di antico pianeta’, insomma dichiare l’inattingibilità del passato dopo aver ‘simulato’ il passato in maniera così convincente (Miłosz fa una cosa simile in “Non di più”) è una di quelle cose che in poesia mi conquistano. E l’insurrezione del ghetto? Dove era finita?

Solo adesso mi rendo conto, mentre tengo sotto il gomito, tra gomito e coscia, lo smilzo volumetto dalla copertina verdeacqua dell’adelphi a pagina 32, di questi “vento dalle case in fiamme” e “le salve dal muro del ghetto”. E solo ora leggo veramente quella scritta in calce a cui non avevo mai prestato attenzione: Varsavia, Pasqua, 1943.

Difficile allora, dopo che il coinquilino si è preso lo sbatto di educarmi, (anche per evitare che mi precipitassi in strada lasciando la porta aperta), non rientrare nella schiera di quei lettori previsti da Miłosz quando nella poesia stessa scrive (o viene tradotto):

“C’è chi ne trarrà la morale/Che il popolo di Varsavia o Roma/Commercia, si diverte, ama/Indifferente ai roghi dei martiri.”

E non importa se questo pensiero è in qualche modo più banale di quello che mi aveva colpito un anno fa.

Dopo Miłosz sono tornato a leggere quello che seguo in questi giorni. Altre persone fermate dalla polizia per proteste pacifiche a Varsavia, altra violenza della polizia in Valsusa. Certi parallelismi sono inquietanti: a San Didero, la polizia ha impedito i rifornimenti di cibo e acqua – esattamente quello che la pislicja fa qui quando circonda i manifestanti (io l’ho visto “dal vivo” a Wilcza, ma molt* manifestant* sono stat* testimoni di bastardate simili e c’è addirittura materiale fotografico raccolto da OKO.press di un poliziotto che “intercetta” (stile nba) un panino affinché non possa essere lanciato oltre il cordone di sbirri).

Qualche mese fa pensavo 1) di non scrivere per nessuno o quasi 2) che a nessuno fregasse di quello che succedeva in Polonia. I giornali sembravano poco interessati a coprire le proteste e buona parte degli italiani che commentavano sotto gli articoli sulla situazione polacca si limitava a dire che la Polonia non doveva stare nell’Unione Europea. Tutto questo mi faceva sentire incredibilmente solo. A chi fregava, tra le persone che parlavano la mia lingua, del posto in cui vivevo, della lotta che, certo per caso ma non senza convinzione, mi ero trovato a combattere?

Chissà come si sente chi lotta in Valsusa? Ignorat*, fraintes* o distort* dalla stampa e probabilmente semidimenticat* dagli italiani, ora impegnati a discutere su chi abbia ragione tra UEFA e Superlega. Chissà come si sentiva Miłosz, quando una sera dell’aprile del ’43 si ricordò di Campo dei Fiori, mentre poco distanti dalle case in fiamme nel ghetto, la gente di Varsavia “rideva allegra” e andava sulle giostre?

Qualche mese fa, in seguito alla pubblicazione della sentenza del tribunale costituzionale mi ero sentito del tutto rimosso dal mondo: mi ero reso conto di vivere in un paese ostile a me e a tutte le persone che mi erano amiche e di scrivere per gente (gli italianoparlanti) a cui di questa situazione non importava niente.

E proprio in quell’occasione, Filo Sottile ha scritto un articolo chiamato “Sentire cosa avviene in Polonia“, linkando questo blog. Magari è il mio narcisismo che parla (come saperlo? Probabile), ma vederlo mi migliorò la giornata. Era come sentirsi dire “a qualcuno frega” o il “you’re not alone” di ziggystardustiana memoria.

Ci troviamo tra l’anniversario dell’insurrezione del ghetto e il 25 aprile. Un po’ come Natale se sei antifascista. E a quei 4 gatti che mi leggono (sto pensando anche a te, sei tipo il gatto numero 3) vorrei chiedere di essere più buon*. Ma come? Glad you’re asking: per citare Filo Sottile nell’articolo di cui prima, “l’invito è a raccogliere informazioni”: esiste un sito chiamato notav.info, esiste un canale telegram omonimo. Entrambi vengono aggiornati molto regolarmente. Anche Filo Sottile scrive o pubblica immagini di queste proteste e così i WuMing, su Giap, il loro blog. Se volete fare qualcosa di più pratico, proprio dal canale telegram ho appreso che è attiva la raccolta fondi per sostenere spese dell’auto No Tav bruciata a San Didero. Come urlavamo durante le proteste, “solidarność naszą bronią.”