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Reato di solidarietà. Per aver aiutato una donna ad abortire Justyna rischia 3 anni di carcere

Ricordo almeno una protesta varsaviana in cui, tra uno slogan femminista e uno antipolizia, la persona con il megafono (non so dire se Lempart o Suchanow o altr*) si era messa a scandire questo numero: 222-922-597.

Si tratta del numero di Aborcja Bez Granic (letteralmente, “aborto senza frontiere”), “un’iniziativa internazionale costituita da sei organizzazioni” – come è scritto sul sito – “sorta con l’obiettivo di aiutare le persone ad accedere all’aborto”.

Una di queste sei organizzazioni è Aborcyjny Dream Team (o “Abortion Dream Team”), formata da Kinga Jelińska, Karolina Więckiewicz, Natalia Broniarczyk e Justyna Wydrzyńska. Justyna è diventata un’attivista per il diritto all’aborto poco più di dieci anni fa, dopo aver abortito e dopo aver lasciato un marito abusivo. Proprio la decisione di interrompere la sua quarta gravidanza, come riporta un paragrafo biografico che potete trovare a questo link (c’è anche la versione in inglese), ha dato il coraggio a Justyna di abbandonare la relazione tossica in cui era invischiata. Così, dopo aver lottato per avere il controllo sul proprio corpo, da dieci anni si batte perché anche le altre persone possano abortire.

Ieri mattina, alle nove e mezza, Justyna è entrata nel tribunale di via Poligonowa a Varsavia per cominciare il suo processo, per aver aiutato un’altra donna procurandole delle pillole abortive.

La vicenda che ha portato a questa assurda persecuzione è tristemente simile a quella che, poco più di dieci anni fa, con un finale diverso, aveva portato Justyna a liberarsi della propria relazione. In tempo di pandemia, Ania, non potendo più ricorrere ai viaggi all’estero, si era rivolta ad Aborcja Bez Granic. A prendersi cura del suo caso era stata Justyna, che le aveva procurato delle pillole per abortire. Ania stava rincasando, con le pillole nella borsa. E solo una volta entrata in casa, ha visto che il marito le aveva preparato una sorpresa: aveva chiamato la polizia. La polizia ha confiscato i medicinali a Ania e oggi, per aver cercato di aiutare una donna in una situazione simile alla sua (come ha detto in tribunale “il mio stesso aborto è stato il primo passo per uscire da una relazione violenta”), Justyna rischia fino a 3 anni di carcere. Tre anni di carcere per il reato di solidarietà, si potrebbe dire. E così infatti dice una collega dell’Aborcjyny Dream Team:

“Le donne come Justyna sono l’ultima garanzia di aver un aborto sicuro in Polonia. Dovrebbero essere difese, e non perseguite. Qual è l’intenzione della procuratura? Che le donne abbiano paura di rimanere incinta? O che abbiano paura di non poter contare l’una sull’altra?”

Fuori dal tribunale di Poligonowa c’era una folla di gente riunitasi per sostenere Justyna con un picchetto. Si potevano vedere le bandiere di associazioni sempre presenti alle proteste polacche, come le Polskie Babcie (“Nonne polacche”) e l’Homokomando, e c’erano dei banner, con scritte come “Aborto vuol dire salute” o “Ho delle pastiglie e non ho paura di usarle – o darle a qualcuno”.

Parcheggiato davanti al picchetto, ridicolo e pericoloso, il cosiddetto fetobus (mia traduzione dal polacco płodobus), con le facciate tappezzate di foto di supposti feti abortiti e scritte come “La pillola abortiva uccide”. Il conducente (ovviamente un maschio cis, che non ha mai dovuto esperire una gravidanza) del fetobus (o una voce preregistrata, non saprei dire) recitava un rosario. Tra il fetobus e il picchetto, qualche poliziotto. E mentre il fondamentalista religioso pregava, a un certo punto la folla ha scandito la frase “L’aborto vuol dire vita”. Qualcosa di controintuitivo per molt* e di certamente incomprensibile per i fetofili più accaniti, ma che si capisce subito cambiando leggermente prospettiva, se si pensa a come è migliorata la vita di Justyna dopo l’aborto e a come sarebbe potuta cambiare in meglio anche quella di Ania, se il marito non avesse chiamato la polizia.

Il processo continuerà con una seconda udienza il 14 luglio. Per chi vuole aiutare, c’è una petizione da sottoscrivere (cliccando a questo link su “take action”) e una storia da far conoscere. E poi, non so, magari qualcun* vuole andare a dimostrare sotto l’ambasciata polacca?